Perché la Webtax danneggia le startup digitali

 

Ho riflettuto a lungo prima di pubblicare questo post. Nei giorni scorsi ho pubblicato diversi tweet, anche ravvicinati, cercando di spiegare perché la cosiddetta “Webtax“, che tutti in rete stanno discutendo, è a mio avviso un grave errore capace di provocare più danni di quanto si pensi.

Andiamo con ordine: prima di tutto perché mi metto a commentare un testo di legge, e chi sono per farlo? Se a qualcuno può interessare sono laureato in legge e sono stato sia praticante avvocato che praticante notaio.  Secondo: sono un imprenditore “digitale”,  sviluppo app, vivo di web ed e-commerce e qiundi la legge in questione può incidere pesantemente sulla mia professione.

Ma passiamo alla webtax. Perché è stata creata, e cosa dice?

La ragione per cui è stata concepita la webtax è semplice: recuperare più denaro per le casse dello stato. Internet è sempre stato un settore particolare, dove la territorialità non conta: il web è fluido, i servizi sono globali e venduti in tutto il mondo senza poter essere segmentati e regolamentati in base ai canoni “tradizionali” che identificano un’attività economica con un territorio di riferimento. Aziende come Google e Facebook hanno uffici in tutti il mondo e vendono servizi in tutto il mondo, e quindi posso scegliere dove posizionare la loro sede fiscale, in modo da pagare meno tasse possibile. E’ una scelta comprensibile: chi non lo farebbe, se potesse?

Il problema però è rilevante, perché i giganti del web fatturano miliardi di euro, e in genere scelgono la propria sede con molta furbizia, il che fa si che paghino pochissime tasse. Per questo si è scelto di fare una webtax: per cercare di obbligare i grandi del web a pagare le (salate) tasse che esistono nel nostro paese. E’ giusto oppure no che aziende multinazionali paghino tasse irrisorie rispetto a quelle che i cittadini normali pagano? La questione è politica, sicuramente da affrontare, ma a nostro parere il modo in cui è stato fatto è a dir poco grottesco. Vi spiego perché.

Il testo della cosiddetta “webtax” è stato presentato da diversi parlamentari  sotto forma di emendamenti alla legge di stabilità, e successivamente modificato. Nella sua versione iniziale, il testo prevedeva tre cose:

1)  “i soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana”

In parole povere, questo testo significa che è vietato alle aziende italiane (non ai consumatori, solo alle aziende) di acquistare beni o servizi online da chi non ha una partita iva italiana.

Esempi:

  • Acquistare un bene o servizio su un e-commerce italiano: si può fare.
  • Acquistare un cellulare, magari non in vendita in italia, su un sito e-commerce estero: vietato.
  • Acquistare un servizio basato sul web, anche in abbonamento, tipo dropbox o simili: vietato.
  • Acquistare un plugin per Photoshop, che non viene venduto in italia: vietato.
  • Acquistare un servizio per dotarsi di un’infrastruttura di rete che serve a far funzionare un’app, tipo Parse: vietato
  • Acquistare un servizio di hosting per il proprio sito web da un provider estero, tipo hostgator.com: vietato

La follia di tale divieto è assolutamente palese per chiunque abbia una minima conoscenza tecnica di internet,  del funzionamento delle app, dei siti web e di tutto quello che fa muovere il settore digitale. Noi operatori e imprenditori digitali operiamo in modo globale e usiamo tutti i giorni servizi e strumenti venduti online da aziende non italiane, né potremmo fare altrimenti.

Nelle intenzioni dei legislatori, la webtax avrebbe dovuto toccare solo Google, Facebook e Amazon, obbligandoli  a dotarsi di una partita IVA italiana. Quello che è stato completamente ignorato sono le altre decine di migliaia di imprese che mai apriranno partita iva italiana, preferendo invece escludere l’Italia dai propri servizi.

Una norma come questa è grottesca ma soprattutto pericolosa, in quanto capace di paralizzare migliaia di startup italiane, vietando l’uso di alcuni dei più basilari servizi necessari al funzionamento di imprese come la mia e quelle di migliaia di altri ragazzi. Con la conseguenza che tutti noi saremmo dovuti andare a lavorare all’estero.

Buone notizie: questa parte del provvedimento è stata cancellata.  Resta comunque lo sgomento di come sia potuta essere discussa e approvata dalla Commissione Bilancio della camera una simile norma.

Ma non è finita qui: il secondo provvedimento è ancora in piedi:

2) “i soggetti passivi che intendano acquistare servizi di pubblicità e link sponsorizzati online anche attraverso centri media ed operatori terzi sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana”

ma anche:

3) “gli spazi pubblicitari online e i link sponsorizzati che appaiono sulle pagine dei risultati dei motori di ricerca (…), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio online (…) devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti quali editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita Iva italiana”.

Cosa significa? Significa che acquistare pubblicità o posizionamenti sponsorizzati per la propria azienda su internet sarà possibile, dal primo gennaio, solo se il venditore ha partita IVA italiana.

Se le cose rimangono come sono oggi, quindi, non sarà possibile più acquistare link sponsorizzati direttamente da Google, né tanto meno fare pubblicità su Facebook.

Ma non solo: per ristoranti e hotel niente più pubblicità su Tripadvisor. Nessuna possibilità di promuovere i nostri prodotti “Made in Italy” all’estero, mentre le agenzie immobiliari non potranno più pubblicizzare appartamenti in affitto per le vacanze su siti stranieri. Se io poi pubblico un’app o un gioco nuovo, e voglio pubblicizzarlo presso gli utenti americani, indiani o giapponesi, con un servizio leader come chartboost, non posso farlo. Con buona pace per la mia competitività.

La soluzione? acquistare la pubblicità tramite un intermediario italiano, un editore o una concessionaria, che si farà pagare il servizio, aumentando di molto il prezzo finale. Sento puzza di lobby.

Quando Google e Facebook si doteranno di partita iva italiana dovranno poi versare al fisco il 22% di IVA e si vedranno tassati i profitti al 31-32%. Se i nostri politici pensano che i giganti del web accetteranno di ridurre i propri profitti per pagare le tasse in italia, si sbagliano di grosso: data la posizione dominante che hanno sul mercato, potranno permettersi di aumentare i prezzi quanto vogliono, quindi in buona sostanza chi pagherà la differenza saranno le aziende italiane, che subiranno rincari notevoli.

Infine, sorvoliamo sull’obbligo di pagare la pubblicità online esclusivamente tramite bonifico bancario o postale. Per quanto possa sembrare tragicomico, nel momento in cui il mondo si sta aprendo alle valute virtuali come il Bitcoin, l’italia cerca di obbligare l’acquisto di pubblicità online solo tramite uno strumento vetusto e scomodo come il bonifico. Mai sentito parlare di Paypal? di carte di credito? Mi chiedo se questi signori sappiano che Facebook regola l’allocazione degli spazi pubblicitari attraverso un complesso sistema di aste in tempo reale, permettendo a chi acquista pubblicità di regolare al centesimo la propria offerta.  aggiustando il prezzo dell’inserzione,il targeting, la segmentazione e gli interessi dei destinatari, per poi impostare un budget giornaliero e regolare il pagamento in automatico, una volta la settimana. No, per acquistare la pubblicità bisogna andare alla posta. Poi ci si meraviglia se il mondo ride di noi.

Come è stata recepita la webtax? Male. Come era prevedibile, contro la legge si sono pronunciati la commissione europea (la webtax è chiaramente in violazione della normativa comunitaria), oltre che alcune delle più autorevoli testate giornalistiche al mondo.

Due considerazioni finali: visto che il web è un mercato globale, unico, fluido, le aziende italiane che operano nel web, come ad esempio noi sviluppatori di app, ci troviamo in competizione diretta con aziende straniere prima che con altre aziende italiane. In questo settore già facciamo fatica, perché mancano le infrastrutture e gli investimenti,  e le tasse sono alte oltre ogni limite.

Il digitale è poi uno dei pochi settori che registra una crescita annua nonostante la crisi e che porta nelle casse dello stato maggiori entrate e occupazione.  Interventi come questo vanno nella direzione opposta a quella che si auspica: servono incentivi, non stangate. Servono provvedimenti lungimiranti, studiati per incentivare gli investimenti e  far crescere le nostre aziende digitali, non leggine scritte male e fatte per tagliarci fuori dal mondo.  D’accordo la regolamentazione dei giganti del web, ma non penalizzate le piccole imprese.

EDIT (2): L’entrata in vigore della webtax è per il momento posticipata al 1 Luglio 2014. E’ già qualcosa, poi vedremo cosa succederà.